Santo Domingo, la capitale

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Santo Domingo: gioia caraibica

Lieto fine di una storia dove il nero non esita a manifestare la propria invadente preponderanza, elemento salvifico che fin dall’inizio dei tempi ha per via della sua funzione permesso ai vagabondi di trovare la strada di casa, barlume di speranza lì dove tutto sembra ormai irrimediabilmente perduto. Molto più di un supereroe dai poteri che di umano hanno soltanto le narrazioni all’interno dei libri, è il sole a raccogliere nella parte più accogliente della sua natura caratteristiche che, vicendevolmente aggregate, fanno di esso punto di arrivo per ogni individuo che intenda evadere dalle mille tonalità di grigi che invadono il roboante frastuono cittadino. Nonostante la sua ubiquità, vi sono luoghi nel mondo dove egli mostra la parte migliore di sé, quasi nel tentativo di voler premiare chi è in grado di saperne apprezzare a fondo la non celata bellezza.

Vivere Santo Domingo quel tanto che basta per riuscire a coglierne l’intricata interiorità vuol dire, prima di ogni cosa, fare ingresso nei meandri di una natura che qui, ancora oggi, appare sovrana magnanima. Aspetto nei confronti del quale è bene fare attenzione è una cultura che, oppostamente a quello che si potrebbe pensare, vede nelle proprie infinite ramificazioni manifesto lampante di radici ibride. Capitale della Repubblica Dominicana, il nome di questo centro abitato può essere piuttosto facilmente ricollocata a quella dell’omonimo santo, commemorato proprio nel giorno della sua fondazione.

Coloro che a Santo Domingo si sono per primi insediati sono stati gli spagnoli, la cui spedizione del 1496 permise loro di donare all’umanità intera qualcosa di cui quest’ultima avrebbe voluttuosamente goduto per i secoli seguenti. Quattro anni dopo la ricorrenza che ne segnò la nascita ufficiale, fu per volere dell’allora governatore Nicolàs de Ovando che la città venne spostata. A dispetto di un principio piuttosto travagliato, a Santo Domingo deve essere attribuita la medaglia di primo, in ordine temporale, insediamento europeo nelle Americhe. Le vesti con le quali essa si presentava agli albori della propria vita terrena sono perfettamente rimembrabili visionando la Zona Coloniale, Patrimonio UNESCO. A tentare di mitigarne negativamente un destino roseo vi fu l’invasione haitiana degli anni Venti dell’Ottocento, debellata in via definitiva soltanto due decenni dopo.

L’itinenario

Forte di una superficie di poco superiore ai 100 chilometri quadrati, Santo Domingo allunga i sui tentacoli verso il Mar dei Caraibi, andando ad occupare la frazione meridionale della costa dominicana. Le acque che umidiscono il litorale di questa movimentata Capitale sono inquinate a tal punto da costringere le autorità locali a vietare la balneazione in prossimità di un’area piuttosto vasta. Tra i primi siti fruibili vi è quello di Boca Chica, la cui battigia è per gran parte rivestita la locali dove potersi rifocillare dopo un bel bagno. La barriera corallina che in questo segmento di costa risulta tuttora relativamente inalterata è poi gergale ciliegina ad una torta colma di ogni leccornia. A solleticare i sensi dei turisti vi saranno, oltre alla tintarella, particolari naturali ed architettonici così caratteristici da diventare pressochè introvabili altrove. Attraversare le colorate viuzze, magari con indosso il tipico cappello coloniale fatto di foglie di parla, conferirà l’opportunità di impreziosire il diario di viaggio sia di odori, come quello dello zenzero e della cannella, sia di sapori, conseguenza delle molteplici influenze culturali, rimuovibili dagli indumenti ma non dai ricordi. Epicentro della religiosità locale è rappresentato dalla Cattedrale di Nostra Signora dell’Incarnazione, edificata previo benestare di papa Giulio II. La posa delle prime pietre avvenne nell’anno 1512, con battute d’arresto che prolungarono oltremodo il definitivo completamento dell’opera. I lineamenti, per quel che riguarda le pareti esterne, appaiono piuttosto essenziali, con composizioni in pietra calcarea che si alternano ad interventi in muratura tradizionale. Per diverso tempo, La Cattedrale di Nostra Signora dell’Immacolata ha custodito le spoglie di Cristoforo Colombo, ricollocate successivamente in quella che tuttora costituisce la loro casa, il Faro a Colòn.

Che cosa, meglio del Castello di Ozama, riuscirebbe a centrare l’obiettivo di raccontare alle generazioni attuali la storia dell’influenza spagnola sull’isola caraibica? Pur intraprendendo un’impari lotta riflessiva, la risposta catapulterebbe senza ombra di dubbio alcuna verso vicoli privi di uscita. Nel continente americano, è impossibile infatti trovare un edificio militare più antico di questo. Alle sue imponenti mura, che sovrastano l’omonimo corso d’acqua, venne dato il compito di difendere la città dalle minacciose incursioni piratesche. Visitandola internamente ci si imbatterà in cunicoli sotterranei dove i prigionieri scontavano la loro pena. Dai suoi quasi 20 metri di altitudine, la vista che varcherà l’uscio di ingresso del cuore è adatta a tutti quei sognatori che qui avranno conforto. L’affettuoso nomignolo di Torre dell’Omaggio venne in seguito dato a questo complesso fortificato al fine di evidenziarne il saluto quasi simbolico che da qui si poteva rivolgere alle imbarcazioni di passaggio.

Tra gli step obbligati, sarà bene sottolineare anche l’Alcazar de Colon, un palazzo in pietra nelle cui stanze, originariamente una cinquantina, dimorò colui al quale venne assegnata la carica di quarto Governatore delle Indie, Diego Colombo (figlio del navigatore genovese Cristoforo). Ciò che oggi rimane rappresenta solo una frazione marginale dello sfarzo cinquecentesco che al tempo padroneggiava l’inesplorato circostante. I semi di molte delle gesta citate nei volumi storici sono, tra le proprie pareti decorate, stati interrati. Alla condizione di abbandono nella quale l’Alcazar de Colon cadde a partire dal Settecento si cercò di ovviare a metà del secolo scorso, quando un significativo piano di interventi restaurativi lo trasformò in un museo ad oggi frequentato da migliaia di visitatori ogni anno.

A proseguimento di un itinerario che nel caso particolare di Santo Domingo non può essere solo e soltanto mare, vi è il Monastero di San Francisco. Costruito nel 1512 ed abitato inizialmente di monaci francescani che presero parte alle prime spedizioni, a ridurre in rovina l’edificio furono prima le fiamme di un incendio e poi i sussulti di un sisma, quello del 1673, che ne sbriciolò tutto ciò che ne restava. Soprattutto negli ultimi anni, tra le rovine del monastero vengono organizzati eventi ed escursioni, queste ultime agevolate dal tanto verde che c’è intorno. A guardare dallo spioncino della serratura c’è la Tomba di  Alonso  de Ojeda, primo esploratore a cartografare le coste venezuelane, quelle trinidadiane e quelle guyanesi.

In conclusione di questo viaggio, perché non concedersi un gran finale accarezzando con mano un pezzo di Paradiso in Terra? Sottoposta a protezione dal 1975, l’Isola di Saona ha nel suo nome un chiaro riferimento alla città ligure di Savona. Nei suoi quasi 120 chilometri quadrati di estensione, sono soltanto un paio i villaggi presenti, entrambi abitati da pescatori del luogo. Il contorno è invece un ecosistema che di secondario non ha assolutamente nulla. Un mare dall’inarrivabile trasparenza, sabbia bianca e liscia come la pelle di un infante e palme la cui ombra assicura riparo dal sole cocente sono ciò per cui vale la pena approdare qui. Due sono le attività da dover per forza di cose praticare nell’Isola di Saona. Prima di esse è una capatina al centro di accoglienza delle tartarughe marine. La seconda, ancor più accattivante, è lo snorkeling, col quale osservare le meraviglie che ingentiliscono il fondale marino. Dopo un pranzo rigorosamente a base di pesce, l’escursione non potrà che proseguire con l’incanto del bosco delle mangrovie, formazioni vegetali il cui sviluppo vede nei litorali tropicali il proprio habitat funzionale. A dare il benvenuto a chi si addentra seppur minimamente dalla riva vi è Canto della Playa, una piscina naturalmente formatasi nella quale è il relax a giocare nel ruolo di playmaker.

Cosa mangiare a Santo Domingo?

Tra i tanti manicaretti che riempiono le tavole di Santo Domingo c’è il mangù. Servito indifferentemente a colazione, pranzo o cena, la sua preparazione prevede l’equilibrata convivenza di ingredienti come il platano, soggetto a precedente bollitura, e le cipolle rosse.

Per chi considera la trippa una preparazione riservata alle sole latitudini italiche, la sopa de mondongo ne è una variante caraibica. Dopo essere stata ridotta a striscioline non troppo sottili, la trippa viene fatta lessare in compagnia di cavolo, carote, coriandolo, pomodori, peperoni e cipolle.

Terzo ed ultimo suggerimento va rintracciato nelle pasteles en hoja, degli involtini a base di care e spezie la cui cottura avviene in una foglia di platano.

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